Sabato e Domenica 19-20 luglio
Io, Manu, Carlo e Paolino l'Alpino
Ebbene sì: a tratti, l'abbiamo vista brutta, stavolta...
Pareva che gli elementi fossero contro di noi...
Ma cominciamo dal principio: partiamo sabato mattina, la nostra meta è una grande classica, la Traversata del Pelvoux (PD), che tocca l'elevazione principale del massiccio del Pelvoux, la Punta Puiseux (m 3.943), nel Parco degli Ecrins.
Arriviamo con tutta calma e con un sole cocente ad Ailefroide, verso le 12,30; ci prepariamo e partiamo alle 13,00 alla volta del Réfuge du Pelvoux (m 2.700).
La relazione dice 4 h di salita.
Passiamo sotto alle grandi vie di Ailefroide: ecco il mio prossimo obiettivo, da queste parti, una grande via sportiva: Palavar-les-Flots (5c max, 5b ob D- 400 m):
Il sentiero si inerpica tra boschi di pino, poi ci condanna alla calura del sole del primo pomeriggio...
Alle 16,00 eccoci alla nostra meta; il rifugio è carino, per nulla affollato, essenzialmente per due motivi: è molto distante dal fondovalle ed offre solamente sbocchi di un certo impegno alpinistico, per cui si mantiene al di fuori dalle rotte dei merenderos domenicali.
La partenza è prevista molto presto, per chi ambisce ad effettuare la traversata del Pelvoux; siccome la prima parte della via presenta un po' di arrampicata ed un andamento tortuoso e da ricercare, si raccomanda un'ispezione il pomeriggio precedente, alla luce del sole.
Così facciamo anche noi.
La cena è accettabile, siamo al tavolo con quattro simpatici signori di Genova, gli unici altri italiani al rifugio; per il resto, si parla francese e inglese.
Poi tutti a nanna.
La sveglia è disumana: alle 2,30!
Ci si prepara, si fa un'abbondante colazione (particolarmente fornita, in questo rifugio) ed eccoci in marcia alle 3,40 precise.
Il buio è attenuato da una luna splendente; la via parte con una parete da superare in facile arrampicata (II grado), alla luce delle frontali.
Come al solito, siamo tra i più lunghi a partire, tra gli ultimi alasciare il rifugio...
Giunti in cima alla morena detritica, cerchiamo un varco che ci conduca al primo nevaio:
Ben presto aumenta la pendenza del nevaio, che offre una certa consistenza, per cui decidiamo di ramponarci (la prima di un'ennesima serie di metti/togli...):
Attraversiamo poi una fascia di rocce, seguita da una zona detritica, per immetterci definitivamente sul Ghiacciaio di Sialouze.
Lo risaliamo in silenzio, mentre penso a Silvia che a quest'ora è lanciatissima in qualche discoteca della riviera ligure...
Nonostante la partenza lenta dal rifugio, sul campo non siamo certo i peggiori ed in breve tempo raggiungiamo e superiamo diverse cordate.
Giunti al colle, dove ci leghiamo in cordata (io e Manu, Paolino e Carlo) con corde intere da 40 m, ecco alla nostra destra innalzarsi il Couloir Coolidge (40° max), il varco che cerchiamo per accedere alla vetta:
Ci viene in aiuto l'allenamento e quel minimo di dimestichezza acquisita in primavera lungo i couloir Due Dita e Nord di Punta Venezia: saliamo abbastanza bene, seppur con ovvia fatica.
C'è vento a raffiche e paiono sopraggiungere nubi inattese, all'orizzonte.
Il couloir è in ottime condizioni, ma, soprattutto a causa del vento, siamo bersaglio di diverse cadute di pietre dall'alto, che sfrecciano come proiettili sibilandoci accanto. Fortunatamente sopra di noi abbiamo cordate esperte, che ci avvertono ogni volta in tempo.
Paolino si produce anche in un tuffo laterale, per evitare una pietra, mentre un'altra, fortunatamente di piccole dimensioni, lo colpisce ad un braccio.
Finalmente vediamo l'uscita.
Ormai è giorno, c'è il sole, ma il vento sta portando le maledette nuvole proprio nella nostra direzione.
Usciamo dal Couloir Coolidge, sbucando sul Glacier du Pelvoux a 3.830 m di quota:
Che spettacolo!
Il plateau ghiacciato sommitale del massiccio del Pelvoux ci permette di individuare la più alta tra le quattro cime che lo contornano: la Punta Puiseux (m 3.943).
Usciti dal couloir, prendiamo il pendio alla nostra sinistra.
Siamo stanchissimi, gli ultimi metri della rampa finale paiono non finire mai...
Finalmente, non c'è più niente da salire!
Siamo in vetta, sferzati da un vento gelido e preoccupati dalle nubi scure in avvicinamento.
Sono le 7,15.
Il plateau sommitale, visto dalla vetta del Pelvoux:
Autoscatto, che lascia intravedere ciò che sta per piombarci addosso...
Manu in vetta, con alle spalle le tre punte dell'Ailefroide (m 3.954):
Mentre il sole va scomparendo, iniziamo, senza saperlo, il calvario della discesa.
Optiamo, come previsto, per la traversata integrale del Pelvoux, anziché ridiscendere il Couloir Coolidge e ritornare al rifugio.
Percorriamo un'elegante cresta nevosa, scendendo a destra della Punta Durand (m 3.932):
e a sinistra dei Trois Dents du Pelvoux (m 3.682):
Valichiamo un colle e ci immettiamo nel tormentato Glacier des Violettes.
Siccome le guide dicono che è difficile orientarsi tra i seracchi ed i crepacci di questo versante, siamo lieti di verificare che la via è ben tracciata:
Attraversiamo alcuni crepacci, ancora abbastanza chiusi e passiamo rapidi sotto diversi seracchi.
La relazione parla di una traversata pericolosa, esposta al crollo potenziale di enormi seracchi sospesi: eccoli...
Intanto raggiungiamo la prima calata a corda doppia, con una buona sosta su corde e fettucce ancorate ad uno spuntone roccioso ed un chiodo; la calata è di quasi 40 m:
Scende Manu, poi faccio un ripassino a Carlo riguardo alle manovre di calata, quindi scendo io e per ultimo Paolino:
La calata ci deposita sul ghiacciaio, lungo uno sperone.
Intanto si scatenano i primi tuoni ed inizia a piovigginare.
Alla nostra destra, in basso, la traversata esposta che ci aspetta:
Lo sperone intanto diventa roccioso e la progressione si fa lenta e più incerta: disarrampichiamo coi ramponi ai piedi su roccia che si fa via via più bagnata...
Infine, raggiungiamo una sosta, da cui calarci in una gola tutt'altro che attraente, di cui non vediamo il fondo...
La calata è nel vuoto per i primi metri, tutta spostata a sinistra (faccia a monte) e ci deposita nel mezzo della gola, a pochi metri da una buona sosta a spit.
Piove e fa freddo.
Disarrampichiamo pochi metri, facili ma esposti, sempre coi ramponi ai piedi; dalla nuova sosta tentiamo di recuperare le corde, che puntualmente non ne vogliono sapere...
L'angolo di calata, il maillon rapide non molto grande, le corde intere, ma soprattutto il fatto che siano totalmente inzuppate d'acqua fa sì che non scorrano nell'ancoraggio, per cui non riusciamo a recuperarle. Fortunatamente dietro di noi c'è una cordata di francesi: urliamo selvaggiamente e, da alpinisti navigati, capiscono il problema; siccome si trovano proprio all'ancoraggio, in attesa di utilizzarlo, fanno scorrere le nostre corde, permettendoci di recuperarle.
Attrezzo la doppia successiva: ancora una volta non si capisce se le corde arrivano fin sul ghiacciaio oppure se vi sia una sosta intermedia oppure (terribile...) se resterò appeso a mezz'aria, con le corde finite...
Scendo a fatica, a causa dell'effetto super-frenante delle corde intere bagnate nel discensore, ma fortunatamente arrivo giusto giusto sul ghiacciaio, con una calata di 40 m.
Poi mi seguono gli altri:
Sta sempre piovendo, siamo percorsi da tremiti di freddo e sopraggiunge pure la nebbia ad impedire la navigazione "a vista"...
Io e Paolino avvertiamo ciò di cui avevo sempre solo letto nei libri di Bonatti: con terrore, sentiamo le punte delle nostre piccozze friggere letteralmente nell'aria carica di elettricità.
Sento anche rizzarsi i peli sulle mani e sgli avambracci (i capelli sono coperti dal casco)...
Questa è l'ultima foto che ho scattato: da qui in poi la lotta con gli elementi si fa troppo impegnativa ed il nostro filo rosso è già cambiato: da allegra gita a sforzo per riportare le chiappe a valle, sane e salve!
Calati sul ghiacciaio, ancora sopra ai Tremila metri, ci aspetta uno dei punti più pericolosi della discesa: l'attraversamento del ghiacciaio trasversalmente, letteralmente correndo da un lato all'altro, sotto il tiro di seracchi enormi; per di più, sta sempre piovendo e a tratti grandinando, tuoni e fulmini accompagnano il nostro penoso incedere.
Dalla colazione al rifugio alle 3,00, non ho ancora mangiato nulla e bevuto pochissimo...
L'impegno e la concentrazione sono tali da non farmi pensare alle richieste del fisico... il quale inizia però a protestare vivamente!
Giunti sul lato opposto del ghiacciaio, la traccia è meno evidente, siamo indecisi; sopraggiungono due alpinisti francesi, quelli che ci hanno disincagliato la corda doppia, e, dopo un breve conciliabolo, seguiamo una pista che risale fino ad una parete verticale, dove pendola dall'alto una corda fissa: la risaliamo, sempre arrampicando con i ramponi ai piedi, per una quindicina di metri, giungendo in cima ad una costa rocciosa.
Mi sporgo dall'altro lato, per scorgere in mezzo alla nebbia i due alpinisti che ci precedono ed intuire da che parte scendere, ma l'unica cosa che avverto chiaramente è di nuovo la punta della mia piccozza che frigge a causa dell'aria elettrica che ci circonda, avvolti come siamo dalle nubi temporalesche che ci accompagnano...
Istintivamente, mi tolgo lo zaino e lo scaravento a qualche passo di distanza. Dopo poco mi raggiungono gli altri: lo sperone roccioso precipita in una parete, occorre trovare un ancoraggio per calarsi.
Intanto ci raggiunge il battistrada di un gruppetto di tre francesi: ci dice che non conosce la via, ma non me la racconta tutta... Infatti, prima ci indica una sosta di calata poco invitante, poi inizia a disarrampicare giù per la parete, con passaggi espostissimi e non facili, sempre sotto la pioggia... Magicamente dice di aver trovato una buona sosta da cui calarsi, quasi a metà discesa: secondo me sapeva benissimo che era lì, ma in questo modo i tre francesi ci superano e noi dobbiamo aspettare che liberino la sosta... Ci caliamo su una sola corda da 40 m: metto piede per primo sul Névé Pélissier.
Ormai soli, discendiamo il nevaio e raggiungiamo la morena; complice un'opportuna momentanea schiarita dalla nebbia, siamo un po' confortati dal vedere un sentiero che prosegue verso il basso; l'altimetro del mio GPS mi dice che siamo a 2.700 m.
Come da relazione, che ormai giace fradicia nella mia tasca, quasi illeggibile, verso quota 2.500 m il sentiero devia verso est; la neve è finita, mettiamo via definitivamente ramponi, ghette e corde. Purtroppo la corda va ad aggiungersi al peso già spropositato del mio zaino, colmo di roba inzuppata d'acqua, cui ora va ad aggiungersi il peso incredibile di una corda intera da 10 mm anch'essa zuppa d'acqua...
Facciamo una piccola sosta, dalla colazione delle 3,00 non ho ancora mangiato nulla... due barrette di cioccolato, mentre il temporale riprende vigore.
Ripartiamo, scendiamo tranquilli: la mia relazione parla di un sentiero poco utilizzato, ma consigliabile in caso di maltempo; anziché scendere direttamente su Ailefroide, dove abbiamo la macchina, si stacca da quota 2.060 m e conduce al Pré de Mme. Carle, da dove occorre seguire la strada asfaltata (4 o 5 km) fino al campeggio.
Essendo stanchissimi ed avendo compiuto la discesa criticando aspramente l'autore della guida per la gradazione troppo allegra ed ottimistica della via, non gli diamo ascolto e, sebbene incontriamo un serio candidato ad essere il sentiero alternativo di cui sopra, decidiamo di tirare dritto per il sentiero principale.
Come descritto, questa via è molto impegnativa, specie col bagnato, in quanto è una successione di passaggi di disarrampicata, a tratti esposti: le cosiddette "Vires d'Ailefroide". Proseguiamo in qualche modo, per inerzia, fino ad un punto morto: una discesa quasi verticale, molto esposta, che conduce ad una cengia inclinata verso il basso, su cui corre l'acqua piovana...
No, troppo pericoloso.
Propongo immediatamente di tornare indietro: risalire le cenge rocciose fino a quota 2.060 m, da dove si staccava l'altra via di discesa e puntare sul Pré de Mme. Carle.
Le alternative sono solo due: bivaccare e aspettare che tutto asciughi oppure chiamare i soccorsi e farsi venire a prendere...
Seppur prostrati dalla stanchezza, risaliamo.
Lo zaino mi schiaccia e mi tira all'indietro, il peso è enorme, soprattutto a causa della corda bagnata...
Imbocchiamo la traccia di sentiero, che purtroppo sale di quota, per aggirare dall'alto alcuni speroni rocciosi e pareti strapiombanti.
Oltre alla stanchezza, serpeggia un po' di sfiducia nella direzione che stiamo tenendo, ma io assicuro con forza che quella dev'essere la strada giusta.
Ad un certo punto, vediamo sbucare dall'alto cinque persone in discesa lungo il sentiero che avevamo percorso anche noi: per evitare che vadano ad infilarsi anche loro nel vicolo cieco costituito dalle balze rocciose bagnate sottostanti, mi sbraccio e tento di richiamare la loro attenzione, ma purtroppo non vi riesco: innanzitutto sono molto lontani, inoltre stanno percorrendo un sentiero disseminato di rocce bagnate, per cui stanno guardando bene dove mettono i piedi...
Con sommo disappunto, vediamo che proseguono lungo il sentiero e non imboccano la deviazione che stiamo seguendo noi: speriamo sappiano quel che fanno...
L'ennesimo temporale esplode fragoroso sopra le nostre teste e piove, ancora una volta: ormai non ci facciamo nemmeno più caso!
Noi riprendiamo la marcia: ad ogni scollinamento speriamo che la traccia inizi a scendere, mentre invece il tracciato si mantiene a mezza costa, alto sul fondovalle.
Finalmente, Paolino, che cammina davanti, esulta: il sentiero scende e, superato un ripido nevaio, il Névé des Militaires, ci fa guadagnare il Pré de Mme. Carle!
Togliamo i ramponi, attraversiamo il ponte ed eccoci sulla strada asfaltata: è tutto finito, la pioggerella non disturba più di tanto i chilometri che ci separano dall'automobile ad Ailefroide.
Purtroppo, la scena che non evremmo voluto vedere si verifica puntuale: l'elicottero del soccorso alpino si alza in volo e raggiunge le balze rocciose da cui avevamo fatto dietro-front e carica un alpinista; altri tre o quattro viaggi e vengono recuperati anche i compagni; speriamo abbiano chiamato i soccorsi per impossibilità a scendere, anziché a seguito di un tentativo finito male...
1 commento:
i like......
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